O’PRESS. LA VITA OLTRE LE SBARRE

O' Press canzoni oltre le sbarre

O’PRESS. LA VITA OLTRE LE SBARRE

C’è vita oltre le sbarre? Si, grazie a O’Press.
Il progetto di economia carceraria da cui nasce la collezione Canzoni Oltre le Sbarre, una linea 100% etica di T-shirt dedicata alla musica dei grandi cantautori italiani.
In quest’intervista a Paolo Trucco, fondatore della Bottega solidale di Genova, conosciamo più da vicino il laboratorio di serigrafia, dove lavorano i detenuti della V Sezione di Alta sicurezza della Casa Circondariale di Genova-Marassi.

Che ruolo hai, di cosa ti occupi e da quanto tempo hai a che fare con il Progetto O’Press?

Mi chiamo Paolo e sono circa 4-5 anni che sono il coordinatore responsabile dell’attività del laboratorio serigrafico all’interno del Carcere di Genova-Marassi.
Sono la persona che sostanzialmente fa da tramite tra “dentro” e “fuori” e che quindi porta il dentro fuori e il fuori dentro.
Mi occupo proprio di coordinare l’attività del gruppo di lavoro interno: dalla programmazione iniziale, alla selezione del personale. E poi tutto quello che serve per farla funzionare, quindi approvvigionamento delle materie prime, attrezzature, relazione con l’amministrazione…e tutta una serie di cose che riguardano solo l’esterno: tutto quello che non possono fare loro, quindi la promozione, la comunicazione, la selezione dei rapporti con gli artisti. Cose di questo tipo!

O’press è nato nel 2008, grazie alla collaborazione con la Fondazione De Andrè ma ti va di raccontarmi di più? Come è nato il progetto?

Ai tempi io ero in cooperativa ma non mi sono occupato della nascita del progetto, sono subentrato dopo. O’Press è  stata un’idea di una ragazza che ha fatto il servizio civile qui da noi e ci ha proposto di lavorare con una serie di detenuti permettendogli di fare questo tipo di attività.
Ma il merito è stato anche di un altro volontario, consigliere di amministrazione, che lavorava e lavora tutt’ora in carcere a Marassi. Lui ci ha permesso di attivare un contatto, perché  ovviamente poi tutto quello che riguarda “il dentro” è di difficile approccio. Nel senso che è difficile che uno prenda e vada lì a bussare per creare un contatto. Ovviamente le relazioni con quello che c’è lì dentro sono un po’ inibite visto il tipo di luogo.
Dunque questa persona ci ha messo in contatto con il carcere ed è partito questo primo laboratorio che ha coinvolto una classe del corso di grafica pubblicitaria del Vittorio Emanuele Ruffini (un istituto scolastico genovese che ha al sui interno un corso di diploma – dura 5 anni e quindi a tutti gli effetti è una scuola come le altre – ) e ha coinvolto i detenuti partendo proprio dai brani di De André.
Una selezione degli estratti e poi da lì un lavoro sulle grafiche.
In quest’occasione abbiamo coinvolto Dori Ghezzi, che ha dato il suo sostegno al progetto ed è venuta a vedere il laboratorio insieme alla casa discografica Universal che ha sposato a sua volta la nostra causa.
Posso dire che quindi O’Press è nata con l’idea di fare un’attività creativa che avesse un alto valore simbolico e sociale.  Col passare del tempo non abbiamo fatto altro che appassionarci, divertendoci sempre più! Anche da parte dei detenuti coinvolti c’è stato grande entusiasmo sin da subito.
Lo stesso vale per le persone che all’esterno hanno iniziato a vedere le T-shirt. La loro reazione è stata fantastica! E da lì praticamente non ci siamo più fermati.

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Come avete fatto a coinvolgere direttamente i carcerati in questo progetto? È stato semplice? Come hanno reagito inizialmente quando gli avete proposto questo progetto?

Nel corso degli anni le cose sono cambiate. Anche le persone. Perché di quelli che c’erano nel 2008, ormai non è più rimasto nessuno. C’è stato un tournover completo.
C’era sicuramente interesse, nel senso che erano già persone che andavano a scuola per cui erano già in qualche modo coinvolti in un’attività quotidiana. Nel corso degli anni ho visto sempre un grandissimo interesse, una grandissima voglia di imparare e di farsi coinvolgere in questa attività.
Noi svolgiamo un’attività che comunque richiede un certo tipo di manualità, di attenzione, anche di professionalità – se vogliamo -, per cui se non c’è una volontà anche da parte delle persone di voler apprendere, di voler fare, è difficile mandare avanti il laboratorio.
Questo perché richiede proprio un coinvolgimento forte da parte loro.  L’attività è svolta in maniera pressoché autonoma da parte dei detenuti: il lavoro intorno alla giostra serigrafica, è svolto in maniera completamente autonoma.
La cosa bella è poi, quando entra una persona nuova e inizia ad apprendere queste competenze,  le vedi non solo sedimentarsi e tramandarsi all’interno del gruppo di lavoro ma ti rendi conto che ogni componente ci mette del suo, aggiunge qualcosa in più.
Questo è uno degli aspetti più belli ed interessanti.

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Hai avuto modo di scoprire se poi una volta uscite dal carcere queste persone hanno continuato a fare questo lavoro di serigrafia al di fuori delle mura del carcere?

Negli ultimi 4 mesi, del gruppo di lavoro di 5 persone che c’era a settembre, ne sono rimasti due e gli altri tre sono usciti. Nel corso degli anni, diverse persone sono uscite. Ne ricordo sicuramente almeno 5 degli ultimi tre anni e con tutte e 5 queste persone ho un contatto non ti dico quotidiano – anche se in alcuni periodi, soprattutto dopo la scarcerazione è stato così – ma poco ci manca!
Solo uno si è fermato a Genova e ci vediamo settimanalmente a pranzo, gli altri sono tornati nelle loro città di origine. Che io sappia, al momento nessuno sta continuando l’avventura serigrafica. A qualcuno piacerebbe ma la gran parte ha iniziato a dedicarsi ad altro. Fortunatamente molti di loro hanno trovato altri tipo di occupazione, qualcuno si è reinventato, qualcuno è ritornato a fare il lavoro che faceva prima della detenzione…Però quello che secondo me è importante, al di là dell’aspetto professionalizzante – che comunque male non fa, perché gli da un’opportunità in più una volta usciti – è che secondo me chi lavora (io non dico solo nella nostra attività ma anche in altre) esce con la testa già più allenata, con una predisposizione, con una freschezza mentale che non so come dire….è come se fosse più pronto alla libertà.
Certamente, dopo anni di carcere non è mai facile tornare fuori, ma già il fatto di essere stati coinvolti in un’attività stimolante da un punto di vista lavorativo ma anche proprio del coinvolgimento cognitivo secondo me fa sì che quando il detenuto esce ha già guadagnato qualche mese ed è indubbiamente più pronto!

Attualmente O’Press è un progetto che coinvolge i detenuti di Marassi, credi che questo modello possa essere applicabile anche in altre carceri italiane? È un’idea alla quale avete pensato, è già in programma?

Noi siamo una realtà genovese e sicuramente quello che è stato il nostro impegno negli ultimi 8-9 anni su Marassi, lo rinnoviamo giorno dopo giorno. Desideriamo anche rilanciarlo e siamo aperti e pronti a vedere se eventualmente si possono aprire nuove ed altre opportunità qui a Genova.

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Io non so se O’Press possa definirsi un “modello”…perché diciamo che il mondo carcerario è comunque particolare e pensare ad un modello replicabile mi sembra difficile.
Quello che spero possa succedere è che crescano sempre di più le attività lavorative all’interno del carcere, destinate ai detenuti e/o attività intra ed extra murarie che possano coinvolgere anche detenuti in permesso, in semilibertà o persone che hanno da poco riacquisito la libertà. Perché chi conosce il mondo carcerario capisce l’importanza del lavoro. Il lavoro diventa uno strumento di riscatto, un modo per attribuire un senso a un periodo particolare della propria vita. Anche perché l’alternativa è l’ozio più totale e passare diversi anni nell’ozio, non credo renda una persona migliore di quando è entrata.
Io dico sempre non “alziamo più muri” ma “costruiamo più ponti”.
Ci tengo a precisare una cosa che per me ormai è scontata ma poi mi rendo conto che le persone restano stupite quando la scoprono. Io parlo di lavoro perché è un lavoro.
Non solo perché le persone fanno qualcosa ma perché sono pagate.
È un lavoro sotto tutti i punti di vista. Le 5 persone che sono a Marassi oggi, sono miei colleghi, hanno un contratto di assunzione, sono regolarmente assunti e godono di tutti i diritti e dei doveri che ha un qualsiasi dipendente.
Poi credo che l’aspetto economico non sia l’unico e il più importante in assoluto perché ritengo che ci siano aspetti immateriali che secondo me valgono altrettanto. Basti pensare al valore di non starsene tutto il giorno senza far niente, ad oziare… ma essere impegnati in qualcosa che ti coinvolge e ti gratifica. Pensa soltanto agli stimoli mentali, ai pensieri che scaturiscono quando vedi i tuoi miglioramenti. Pensa a quello che può darti riuscire a lavorare in gruppo.
Questi sono tutti aspetti importanti, al di là del fatto che il lavoro vada riconosciuto economicamente.
Voglio dire, essere detenuto ha giù una serie di limitazioni enormi, perché non dovrebbe essere giusto vivere e lavorare dietro le sbarre?!

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